Nel precedente post del blog di “Oltre il Don”, dedicato ai continui viaggi del Capitano Ferrari durante la propria
permanenza sul fronte orientale, tra l'Ucraina e la Russia, (http://oltreildon.blogspot.com/2016/06/eugenio-sacco-oltre-il-don-marlin-editore-armir-8-armata-italiana-in-russia.html),
ho avuto modo di fare cenno alla corrispondenza
particolare dal fronte realizzata da Erminio e indirizzata all’amico giornalista
Pino Bellinetti, all’epoca direttore della testata “La Scure” di Piacenza. Con
il medesimo spirito di ricerca che mi aveva condotto al recupero di questa
piccola storia all’interno della grande Storia della seconda guerra mondiale, ho
seguito fin dove mi è stato possibile alcune vicende tra le molteplici che si
sono intrecciate con quella di Erminio, partendo da brevi appunti, note a
margine del diario, nomi o riferimenti a eventi di quel 1942 nel quale ha luogo
la storia del Capitano Ferrari sul fronte orientale.
Fra queste storie una che ha
catturato sin da subito il mio interesse è stata proprio quella di Pino
Bellinetti. E a soddisfare subito il mio desiderio di scoperta è stato un libro
eccezionale, per cura e completezza; dalla sua lettura ho appreso molto su
questa figura di intellettuale sui
generis, giornalista di razza, ideologo e al contempo dissidente del
fascismo; dal momento, quindi, che altri prima e meglio di me avevano
affrontato nella maniera più esaustiva il tema, ho potuto risparmiare tempo ed
energie. Il volume in questione, scritto da Davide Dal Bosco, è nato come tesi
di laurea curata dal professor Mario Isnenghi e prende il titolo di “Pino Bellinetti. Un giornalista in camicia nera” (Ed. Minelliana); si tratta di
un lavoro magistrale, ricco di informazioni e aneddoti che offre ampi spunti di
riflessione sul giornalista polesano e sulla storia dell'Italia fascista.
Di conseguenza, per presentare al
meglio la figura di Bellinetti ho deciso di coinvolgere proprio Dal Bosco che
mi ha concesso con grande disponibilità una intervista nella quale abbiamo
cercato di tratteggiare attraverso ampie campiture la figura, il carattere e
l’importanza di questo grande giornalista, nella speranza di suscitare nel
lettore una curiosità sufficiente ad approfondire i dettagli e le sfumature
della vita, del lavoro e delle opere di Pino Bellinetti.
Dottor Dal Bosco, vorrei iniziare subito facendole la domanda più
complessa e più interessante: chi era Pino Bellinetti per il regime fascista?
Uno strenuo sostenitore e insieme una spina nel fianco delle gerarchie;
uno squadrista, e tuttavia, in alcuni – seppur brevi – momenti della sua vita,
persino un dissidente; un politico, senza l’ambizione di esserlo; il prototipo di quella figura di “intellettuale
militante” – per riprendere un’espressione coniata da Mario Isnenghi –, la cui attiva
opera di partecipazione ideologica garantì, durante il Ventennio, la diffusione
e l’applicazione a livello periferico dei messaggi e delle direttive impartite
dal potere centrale, ma al contempo una presenza scomoda, tenacemente polemica,
a tratti mal tollerata dalle alte sfere fasciste.
Bellinetti fu questo ed altro ancora, ma non c’è dubbio che per
capacità, per aspirazione e per vocazione egli volle essere e fu soprattutto un
giornalista. Sia chiaro: giornalista di parte, nettamente schierato, insomma un
giornalista fascista, che nonostante le continue polemiche nei confronti dei
suoi stessi camerati o del gerarca di turno, rimase un irriducibile fiancheggiatore
del regime, verso il quale non si pose mai, neanche nei momenti di maggiore
isolamento politico, in un atteggiamento di aperta opposizione, né rinnegò mai
le proprie idee.
Animato per tutta la vita da un insopprimibile spirito rivoluzionario,
Bellinetti credette di vedere nel fascismo una rivoluzione nazionale,
antiborghese e antisocialista, erede ultima e legittima di un’epopea che dalle
lotte risorgimentali, passando per la grande guerra, avrebbe dovuto condurre
alla creazione di un’Italia nuova e di un nuovo modello di italiano. Un “rivoluzionarismo”
estremo il suo, un’idea della “rivoluzione” come categoria permanente della
politica (mantenuta anche quando la “rivoluzione” smise di essere tra le parole
d’ordine della stessa propaganda di regime), che furono certamente tra i tratti
peculiari di tutta la sua attività politico-professionale, ma che mescolati al
suo purismo fascista e ad una certa irriverenza verso l’autorità, gli costarono
non pochi problemi disciplinari.
Da questo breve ritratto ne esce fuori una figura di uomo e giornalista
di grande statura, intelletto e coraggio. Quale contributo, storico e
culturale, ha portato il suo approccio di intellettuale fuori dagli schemi?
Dobbiamo ritornare agli anni polesani, alla Rovigo a cavallo tra il
1920 e i primi anni ’30, ovvero alla stagione più intensa e probabilmente più
fervida, sia politicamente che intellettualmente, che questa terra abbia
attraversato nella storia del suo Novecento: sono questi gli anni della piena e definitiva
affermazione di Bellinetti, durante i quali, per la forza della sua
personalità, per i legami politici che aveva stretto, per la qualità della sua
penna, egli seppe imporsi come l’intellettuale di punta del nuovo partito
dominante, il partito fascista, assurgendo ad un ruolo di primaria importanza in
campo culturale non meno che politico.
Politico, poiché fu tra i fondatori del fascismo rodigino, partecipò ad
alcune azioni squadristiche, nei giorni caldi della marcia su Roma fu nel
quadrumvirato che assunse il controllo della provincia, e una volta salito al
potere Mussolini, capeggiò il movimento dei “dissidenti” interni, in
opposizione all’elemento agrario e ai “falsi fascisti” che erano saltati per
tempo sul carro dei vincitori.
Venne espulso dal partito per questo, rientrandovi solo dopo il delitto
Matteotti, per dedicarsi stavolta totalmente all’attività giornalistica. E da
giornalista continuò a suo modo la lotta politica: ferocemente antisocialista e
anticlericale, condusse, dalle pagine del “Corriere del Polesine” durissime e
violente polemiche contro i locali capi socialisti e popolari (su tutti Giacomo
Matteotti e Umberto Merlin), non mancando di dire puntualmente la sua sulle
lotte intestine allo stesso fascismo, sia nazionale che provinciale.
Ma protagonista, abbiamo detto, lo fu anche in campo culturale, amante
com’era della musica e del teatro (al punto da farsene costruire uno in casa
per inscenare rappresentazioni tra amici), della letteratura e delle arti
figurative. Quando nel 1926
Vincenzo Casalini, allora uomo forte del partito in Polesine, lo chiamò alla guida
del nuovo organo della Federazione, “La Voce del Mattino”, Bellinetti fece
della redazione del giornale un salotto politico-letterario, circondandosi di
giovani collaboratori, poeti, letterati, cronisti spiantati, artisti, molti dei
quali rappresentanti di quella che possiamo certamente definire come la “scapigliatura”
rodigina.
Da
qui, egli agì da animatore e figura di riferimento – e in un certo senso di
“protezione” – di questo gruppo che, grazie al dinamismo intellettuale dei suoi
membri, divenne centro di una rete di contatti, corrispondenze, rapporti, coinvolgendo
esponenti del giornalismo, delle arti, delle lettere e della politica, di
livello locale e nazionale, le cui firme andarono puntualmente ad impreziosire
le pagine della “Voce”.
Ecco, credo vadano riconosciuti a Bellinetti questi
meriti, aldilà delle sue posizioni politiche: da un lato, di aver saputo
favorire e incoraggiare le potenzialità espressive di un piccolo ma prolifico
“parnaso” rodigino, che fu protagonista praticamente di ognuna delle
iniziative, delle manifestazioni, e degli eventi degni di un qualche rilievo
che sul piano culturale caratterizzarono quella stagione polesana, e dall’altro,
di aver così contribuito a creare le condizioni affinché Rovigo avesse un suo
posto nel clima socio-culturale italiano di quegli anni.
È, del resto, un atteggiamento, uno stile direzionale,
questo di Bellinetti, nel suo farsi promotore di cultura, che si può ritrovare
anche nelle sue esperienze successive, come appunto a Piacenza, dove continuarono
le numerose frequentazioni con artisti, pittori e scultori, grandi firme del
giornalismo italiano e politici di primo piano, e dove riuscì ad imprimere un
nuovo dinamismo al giornale, “La Scure”, caratterizzandolo con il suo tipico
stile appassionato e polemico, e rivoluzionandone anche la veste grafica,
specialmente quella della prima pagina.
|
Prima pagina de "La Scure", quotidiano piacentino diretto da Pino Bellinetti |
Pur non avendo dettagli su modo e tempo in cui Pino Bellinetti ed
Erminio Ferrari vennero in contatto, abbiamo evidenza degli articoli pubblicati
su “La Scure”. Reportage di guerra, chiamati corrispondenze speciali, dal fronte russo: a metà fra la lettera
dal fronte e il giornalismo embedded.
Come si inserisce questo nella storia personale di Bellinetti e nella sua
esperienza sullo stesso fronte con lo CSIR?
Bellinetti fu spedito a Piacenza, alla direzione de “La Scure”, organo
della locale federazione fascista, nell’aprile del 1938. Vi giungeva da Reggio
Emilia, dopo circa tre anni durante i quali era stato a capo di un altro
quotidiano di quella città, “Il Solco Fascista”, a cui era stato comandato dopo
la sua cacciata da Rovigo, salvo poi esserne rimosso per alcune campagne di
stampa evidentemente poco gradite alle autorità locali.
Allo scoppio della guerra, nel giugno del ’40, richiamato alle armi con
il grado di Capitano, anche Bellinetti – come presto sarebbe stato per suo
fratello Toni, volontario in Russia al seguito del CSIR, e suo figlio Guido,
dispiegato in Nord Africa nei battaglioni “Giovani Fascisti” –, avrebbe voluto
partire per il fronte, ma ciò non accadde mai: i vertici militari, infatti, lo
trattennero costantemente nelle retrovie per quasi un anno, ricongedandolo nell’estate
del 1941.
Evidentemente, gli alti comandi nutrivano serie preoccupazioni sul
fatto che la presenza di un giornalista indocile come lui nel bel mezzo dei
teatri di guerra, avrebbe potuto crear loro non pochi fastidi e imbarazzi, per
il rischio che l’impreparazione militare e l’inadeguatezza di mezzi, forniture
ed armamenti delle nostre forze armate potessero essere svelati all’opinione
pubblica attraverso le pagine di un giornale.
Timori che si rivelarono fondati, visto che sulla “Scure” Bellinetti
pubblicò delle “corrispondenze”, se così vogliamo chiamarle, inviategli dal
fronte russo da una fonte privilegiata come suo fratello, e che attraversando
non si sa come le maglie della censura, giungevano a destinazione raccontando
le molte insufficienze dell’esercito e dei servizi. Per queste violazioni del
segreto militare, cui era tenuto come ufficiale, fu sanzionato con la
sospensione di 6 mesi dal grado.
Insomma, come si può vedere, non era inusuale trovare sulle pagine de
“La Scure” cronache redatte da corrispondenti per così dire improvvisati,
tutt’altro che professionisti, ma a cui il direttore era ben lieto di dare
spazio. Le missive di Erminio Ferrari ne sono ulteriore esempio, e sebbene esse
possano anche non aggiungere nulla di nuovo sul piano del riscontro storico,
non può certamente sfuggire il valore umano – con implicazioni anche
personalissime per Bellinetti –, di testimonianze di vita provenienti da un
fronte che rappresentò una delle pagine più drammatiche per l’Italia nel
secondo conflitto mondiale.
|
Pino Bellinetti. Un giornalista in camicia nera (Ed. Minelliana) |
Volendo trarre un bilancio “professionale” del lavoro di Pino
Bellinetti, quali sono stati secondo Lei gli elementi di vera grandezza di
questo intellettuale?
Credo che si debba parlare di Bellinetti in termini di originalità, per
aver egli rappresentato, all’interno dell’ambiente natio, un elemento di
eccentricità, di rottura col recente passato, e non solo per il suo
personalissimo stile giornalistico, capace di spaziare tra argomenti sociali,
di costume, di cultura, in un’ampia gamma di interessi e con una prosa non da
semplice cronista di provincia (varrà anzi la pena di notare come, dal punto di
vista formale, in esso emergessero, tra le diverse contaminazioni
rintracciabili, due linee di maggiore influenza: quella dei manifesti
futuristi, specie per il ritmo, l’aggressività espositiva, il periodare
assertivo e perentorio; e quella rappresentata - in
ossequio alla sua passione per la rivoluzione francese -
dalle opere di storici come Lamartine, Thiers, Chateubriand, dai quali acquisì
una certa enfasi retorica e alcuni accorgimenti espressivi); ma soprattutto per
essersi posto quale agente catalizzatore delle nuove tendenze culturali
emergenti all’inizio del XX secolo.
E in questo si può riconoscere il suo essere stato un “prodotto”
caratteristico dello spirito del proprio tempo, di quella animata temperie
culturale, politica, sociale che segnò così profondamente la storia d’Italia
del primo ‘900: intendo dire che Bellinetti ha rappresentato la perfetta
espressione delle inquietudini, della crescente incapacità di adattamento alla
nuova società di massa, e dell’ansia di rivolta contro il sistema
liberal-parlamentare da un lato e l’arrembante proletariato dall’altro, di
quella che Luigi Salvatorelli indicava – nel suo preziosissimo libretto
intitolato Nazionalfascismo – come la “piccola borghesia umanistica”, e in
particolare delle sue componenti più giovani.
Questo strato sociale fu il più sensibile alle parole d’ordine e ai
miti vagheggianti la grandezza nazionale, l’imperialismo italiano,
l’interventismo, il primato dell’azione sulla politica, la bellezza del gesto
eroico e violento, propugnati in vario modo, nell’anteguerra, da movimenti come
nazionalismo e futurismo e dalle molteplici filosofie vitalistiche e
irrazionalistiche allora in voga, così come alla propaganda fascista dopo, che
li riprese ampiamente.
La formazione intellettuale del giornalista polesano attinse a piene
mani in questa cultura politica “sovversiva” che da destra, ma anche da
sinistra (si pensi al sindacalismo rivoluzionario), prospettava prossimi
scenari di rivoluzione, identificata prima nella “grande guerra”, voluta e
combattuta da chi come lui la riteneva l’occasione per “nazionalizzare” le
masse, e quindi nel fascismo, in cui molti si illusero di identificare l’unico
e legittimo erede della vittoria e dei valori del combattentismo e la promessa
di un nuovo ordine morale prima ancora che sociale.
Affrontare
lo studio di una personalità come quella di Bellinetti, significa, dunque,
confrontarsi con uno spaccato emblematico dell’agglomerato ideologico di
un’epoca, sul quale il fascismo fondò le proprie fortune.